Tommaso Paloscia

Il racconto lirico di Stefani

Lo chiamano il pittore del Montello: certo, per sottolineare il tema prevalente nella sua pittura, la pittura di Ottorino Stefani; ma anche l’amore per quel paesaggio che è entrato nell’anima dell’artista, quel rapporto sentimentale di cui si impregnano le visioni riproposte. Visioni magari sognate, comunque affioranti da sensazioni che erano rimaste a vagare in uno spazio senza tempo, in qualche parte della memoria. Una definizione appropriata e tuttavia in un certo senso restrittiva nel caso che ci sorprenda dinnanzi ad alcuni aspetti di questa pittura-poesia, quando cioè il tema si dissolve lentamente, e non senza una punta di mistero, nella dolcezza e nella serenità dei colori.

Viene a mente il giudizio di Marchiori: “Stefani è fedele a una visione in cui molte esperienze si sommano, si concretano al di là del tempo, in tonalità che non turbano; che sembrano anzi chiudere e rappresentare lo spirito di un paese morbido… aperto alla fantasia contemplativa dichi ha scelto un certo tipo di visione”. Mi vien fatto di chiedermi, allora, se La collina azzurra del ’76 debba la propria esistenza alla ispirazione di un paesaggio collinare ben definito o non piuttosto allo stimolo – mettiamo– della laguna che l’esaltazione cromatica, in particolare degli azzurri e dei verdi, sovrappone al ricordo di altre vedute fino a sommarne le suggestioni. C’è sempre o quasi sempre l’immagine di un vasto quanto misterioso mare della tranquillità ad accogliere – forse a provocare –il “naufragio”, leopardiano, dolcissimo, delle visioni colorate di Stefani. Ed è probabile che questo accada perché il pittore è poeta egli stesso ed è pittore colto. Paolo Rizzi lo indica anzi “fra i più impegnati in una ricerca interdisciplinare dei valori etnico-culturali della civiltà veneta”: è una verità che viene fuori a passo a passo e talvolta ci sorprende, tanto che ci era parso improbabile l’eventualità che il vaglio della mente potesse farsi avvertire nel ritmo attraverso il quale è solito svolgersi il racconto lirico di Stefani; e poi ci si accorge che effettivamente ne controlla il rigore metrico senza offendere –anzi, aumentandone la piacevolezza – quel canto che pare farsi eco a Il dolente equilibrio o ad Un giorno a Venezia. Di qui la sensazione che i versi rimbalzino in parallelo con le pennellate e i colpi di spatola del Borgo antico.

Ecco, il Borgo antico appunto: mi par di vedervi confluire tutta la musicalità di cui sa caricarsi la pittura di Stefani insieme con il colore del cromatismo veneto ereditato per antico ceppo. E vi si ripete per molti versi quel “miracolo” attraverso il quale artisti veneziani di grande talento riescono con il loro fare moderno a riallacciarsi alla patria tradizione. Corre alla mente il nome di Santomaso (forse non casualmente, giacché egli è stato maestro di Stefani nei corsi dell’Accademia) per una sorta di astrazione intessuta su un canovaccio di rimandi cubisti, nei quali prendono corpo le macchie di colore che assumono il ruolo di protagonisti silenti, cioè senza inutili clamori. Come in Armonie in grigio del quale qui si anticipano le cadenze.

Esiste una coerenza formale tra queste cose e alcuni dipinti dei primi anni settanta (Il lago di creta, ad esempio); così come la musicalità godibile nella Collina bianca del ’75 non ha perduto smalto e dolcezza rispetto alle reinvenzioni di oggi. Per cui il segno, la forma, il colore hanno via via contribuito a tracciare uno stile nel cui ambito il pittore è ormai capace di introdurre con disinvolta sicurezza elementi compositivi tenuti fino a ieri estranei alle migliori intuizioni. Mi riferisco in particolare a certe figure umane penetrate quasi furtivamente nella scena di cui hanno finito con l’occupare un’area notevole, senza tuttavia turbare l’armonia della visione. Quei nudi femminili, che Biasion identifica come frutti di attenta meditazione sulla pittura veneziana e in particolare del Giorgione, rivendicano ad ogni modo una autonomia abbastanza evidente nell’interpretare quella relazione di carattere giorgionesco tra l’essere umano e la natura: suggerendo architetture nuove capaci di esaltarla secondo concezioni moderne. E ritengo che Stefani tenti la trasposizione di quel rapporto ormai classico, tra figura umana e paesaggio, in una pittura che sia del nostro tempo inserendo il nudo come “macchia”, essenziale e primaria, fra le tante “taches” degradanti verso l’infinito: colore nel colore, cioè, nella immagine unitariamente concepita, quasi “a immedesimarsi in essa – mi soccorre ancora Rizzi – nutrirsene, goderne”.

Si dice spesso che per un pittore di memoria – e Stefani lo è – “pensare” un paesaggio significa rivivere le forme e i colori di una realtà o anche di una rappresentazione artistica precedentemente osservata e insediata nell’archivio più intimo delle proprie esperienze. È vero almeno in parte giacché la memoria di un artista non può essere considerata in alcun caso un contenitore inerte di immagini; anzi è strumento dinamico di sollecitazione perché i fatti di archivio si scambino informazioni a sostegno del momento di maggiore tensione che è quello creativo. In questo senso, Stefani è pittore di memoriae instancabile inventore di forme.

 

5 aprile 1985