Andrea Zanzotto

La poesia come coscienza e fondazione di un intenso lavoro pittorico

Stefani ha avuto una fortuna che non è rara negli artisti: quella di integrare la loro esperienza pittorica con una esperienza poetica, che non si può dire di accompagnamento della pittura, ma che ne è quasi la fondazione. In questo doppio procedimento, di fondazione e di rimeditazione sulla pittura, la poesia talvolta appare come protagonista, anche se, alla fine, cede il posto alla creazione pittorica. Successivamente, nel compiersi dell’arco di questa, si ripresenta l’esperienza poetica come per “consumare” ciò che è rimasto potenzialmente irrisolto nella pittura, attraverso un riesame critico ed insieme appassionato dell’esperienza figurativa, compiuto con la parola della poesia.

Tra le personalità di rilevo, che hanno avuto la fortuna di operare sia nel campo della poesia sia nel campo delle espressioni figurative, basti ricordare nomi come Bartolini, Soffici, Guidi, Scialoja e, tra gli stranieri, la superiore personalità di Michaux. Per restare nell’ambito del nostro Novecento, Guidi, ad esempio, è un grande pittore che ha saputo trovare una sua sigla poetica assolutamente inconfondibile. Il suo modo di esprimersi, per più di un aspetto, ne fa quasi un fratello di Ungaretti: un Ungaretti più cupo e denso, con una voce colma e maiestatica. La poesia, per queste personalità, si è sviluppata con una forza non inferiore a quella della pittura pur lasciandone intatto il primato. Nel caso di Ottorino Stefani, fin dall’inizio, la simbiosi di poesia-pittura è stata altamente attiva. Ed è necessario ricordare il suo primo libro Terra rossa, in cui, appunto, appariva chiaramente il Montello come realtà e come archetipo. È questo un luogo eccezionalmente ricco di stimoli che provengono dalla storia, dalla natura, e vorrei direda una certa “astrazione” delle sue forme, perché ha in sé una pluralità di motivi figurali, giocati tra doline e pianori che improvvisamente diventano dossi collinari i quali sprofondano in burroni o in dolci vallette, con un ritmo unico di colorazioni che vanno dal rosso, al bruno, al giallo, al violaceo, al verde, vive della loro purezza, fatta di matericità e insieme di motivi geometrici. Si tratta dunque di un vero “topos” privilegiato.

Già in precedenza avevo avuto occasione di rilevare che il “postcubismo” o l’“astrattismo” o certo “informale” di Stefani passavano attraverso il riscontro molteplice evitale di un paesaggio intriso di atti e di storie, anche familiari e quotidiane, in cui i segni naturali e quelli di una continua rielaborazione umana, si armonizzavano ma lasciando intatta una riottosità, uno sfuggire enigmatico entro un assoluto e per questo “astratto” chiarore.

Ogni topos, ogni luogo del mondo può diventare luogo della fantasia, dell’invenzione e della creazione poetica o pittorica, per vie misteriose che si incontrano nella realtà e nella rielaborazione artistica; ma non è azzardato attribuire un “quid maius” al Montello ed ai suoi innumerevoli motivi e stimoli che toccano geologia, storia, letteratura e altro con una particolare forza di attivazione alla ricerca creativa sia nella direzione della pittura sia nella direzione della poesia. Ciò è stato vero anche per me che ho spesso affrontato temi montelliani, ma purtroppo nell’impossibilità di usare egregiamente il pennello o la spatola come Ottorino Stefani.

La poesia dell’artista montebellunese, spesso precede e suggerisce temi e motivi che si ritrovano poi nei suoi quadri. Terra rossa, ad esempio, una raccolta poetica del1963, è quasi un catalogo di motivi tematici (tipici del resto di successive raccolte, come Viaggio al mio paese, Il dolente equilibrio e Un gelido furore) che sono Stati fatti propri anche dalla sua espressione pittorica. Taluni versi o gruppi di versi di Terra rossa, come “filari azzurri di vigneti”, “isole di grano abbaglianti”, “fumanti terre arate”, “memorie di verdi linfe”, “case compenetrate sugli erti declivi”, “l’ombra che dirada ai piedi del Montello”, “la luce che si allarga sui fiumi di rugiade scintillanti”, “figure allargate nei verdi estenuati dalle nevi”, ecc. contengono già un nucleo emotivo visivo che si ritroverà intatto in molti paesaggi montelliani dell’artista, in una serie di interazioni, riscontri o scarti, in cui si esprime il gioco ininterrotto tra natura e psiche umana.

Lungo questo arco di esperienze il fondamento poetico, con la sua carica verbale e quindi astraente (perché la parola è in primo luogo una convenzione, come fatto mentale) ha favorito lo strano ed inquietante equilibrio che è tipico dell’opera di Stefani. Un equilibrio che risulta da un continuo rimuginamento mentale, e direi persino fisico, del Montello, del luogo storico e geografico. È la riscoperta ininterrotta dei luoghi profondi della memoriae del colore; lungo un assestarsi del colore e un assestarsi della visualità, nei passaggi dal visibile della pura percezione attraverso pause “astratte” fino alla soglia della figuralità piena. Stefani infatti varca raramente il limite di una certa astrazione che lo porterebbe (soprattutto nelle sue giorgionesche e tizianesche Veneri del Montello) al figurativo vero e proprio.

La sua resta, dunque, una pittura che caleidoscopicamente mette in movimento le percezioni, già acutissime, che provengono dalla realtà e le porta, attraverso una nostalgia di equilibri e di geometrie che sono tipici di un certo “astrattismo lirico”, a delle sintonie, appunto, tra fatto mentale, vissuto del sentimento ed evento della percezione. Stefani ha percorso un lungo cammino pittorico restando fedele a queste tre coordinate, rivisitando continuamente le stagioni del Montello, stagioni che sono anche quelle della vita di ogni giorno, nei suoi ritmi sempre ritornanti. Tale vita si concreta anche e soprattutto in elementi storici e culturali, che così si infiltrano sotterraneamente nella spinta astrattiva. La poesia di Stefani si è dunque inserita molto serenamente nella sua intensa attività creativa in campo pittorico: una attività che viene illuminata, chiarita, dalla parola poetica nel suo “formare”, favorendo la rielaborazione di segni, strutture, colori, atmosfere.

Inoltre la poesia di Stefani appare, anche e soprattutto nell’ultima raccolta I treni di De Chirico, come vero e proprio “esame di coscienza” rispetto al suo operare pittorico. E non è un caso se egli raggiunge risultati particolarmente felici e significativi, anche di tessuto poetico, in questa raccolta, là dove mette in scena dialoghi tra massime figure della storia letteraria da Baudelaire a Mallarmé, e della pittura (Manet) o compone acute meditazioni su taluni grandi artisti come Bosch, Caravaggio e De Chirico. In questi dialoghi e meditazioni di approfondimento psicologico intellettivo, e anche di accostamento riverente e insieme cordiale verso questi protagonisti della cultura letteraria e pittorica, viene a consumarsi quel tanto di non esplicitato che resta inevitabilmente in qualunque lavoro pittorico nel momento in cui si verifica sulla tela o sulla tavola. Pertanto tali poesie e altre di Stefani (come “L’amato lavoro”) creano una acuta luminosità, una specie di riflesso e di alone che si intonano assai bene quali chiavi di lettura per comprendere ed approfondire i motivi ideologici e stilistici della sua pittura. E questa, come la poesia, conserva anche nelle opere più recenti (gli “omaggi” a Giorgione, a Ingres, a Canova, a Sironi, a Braque, a Picasso, i “Mass media sul Montello”)il suo caratteristico equilibrio per così dire instabile. Si tratta cioè di un equilibrio fortemente dinamizzato, concreto e insieme precario, ricco di una spinta che porta verso una serie praticamente interminabile di caleidoscopiche ricombinazioni di strutture cromatiche e psicologiche primarie, in un organico ricomporsi di “tessere cellulari”, terre arate, zone erbose, vallette, doline, cespugli, gruppi di alberi e di case. Tutti questi elementi si esprimono in una loro forza libera ed attiva, che ne sostanzia la misteriosa presenza nel mondo imprevedibile (riottoso e sfuggente appunto) del Montello.

13 aprile 1985