Giuseppe Marchiori

Nello spazio arcano dei sentimenti

Ci sono dei luoghi riconoscibili nella pittura moderna: i paesaggi degli impressionisti; Tahiti e la Bretagna di Gauguin, l’allucinante «Midi» di Van Gogh. La realtà è quella imposta dalla fantasia dei grandi pittori; documentata nel ritmo delle contemplazioni che diventano sostanza di poesia o colori nei quali la natura si scopre, e che ritroviamo poi nei nostri ricordi visivi, risultati di scelte ideali, coincidenze misteriose di stati d’animo, identificazioni simboliche. Sono i paesi dell’anima, rivissuti attivamente, attraverso le differenti forme del sentimento, e che esistono spesso soltanto in noi, con la rapida durata di un sogno.

Esiste una iconografia continuamente mutevole della natura, inafferrabile, tanto da far dubitare della verità del cosiddetto dato oggettivo. Esistono infiniti modi di pensare un cielo, un albero, una pianura, un fiume; e i più convenzionali sono apparentemente i più «veri», pur nella diversità degli stili d’epoca o, meglio, nelle interpretazioni figurative. Forse un discorso di tal genere non è necessario, come premessa all’analisi di una pittura appunto figurativa, anche se la figurazione passa attraverso il filtro della memoria.

Stefani potrebbe essere un pittore «en plein air», un sagace raccoglitore di note colorate, al di fuori di qualsiasi categoria attuale, dai «naïfs» agli iperrealisti. Ma ben diverse sono le sue intenzioni, che si possono identificare con gli stessi termini del linguaggio poetico, tradotti però nei colori e nelle strutture pittoriche, come evocazioni immaginarie di un paese, in cui le parole hanno lasciato il posto alle forme. In quale casella si potrà collocare il pittore Stefani? Nel filone della pittura dal vero? No, se fosse così, sarebbe già implicita una prudente riserva su certi caratteri di una pittura, scarsamente considerata dalla critica d’oggi. La bella veduta e il panorama suggestivo sono ormai le prede visive degli estremi eredi della degenerazione impressionista, condannati alla «spontaneità» degli «ex tempore». Stefani è un solitario che crede invece nei valori di una realtà meno scoperta, che appartiene alla sua natura di sognatore, alla sua stessa vita di poeta. C’è chi ha dipinto le ninfee, chi i cipressi carducciani, chi le palme nizzarde. A Stefani sono invece rimasti nell’anima i colori di certi boschetti bucolici, prodighi di funghi e amici, in lontani autunni, delle beccacce calate dal Nord alle prime bufere. E i suoi colori son quelli, bruni preziosi, dei funghi e delle penne silvestri delle beccacce. Sono i colori che esprimono per lo più gli stati d’animo del pittore poeta nei suoi itinerari lungo viottoli segreti, durante le soste tra le siepi e i bassi fusti, in brevi spazi fatti per l’amore antico della solitudine. Ricordo di aver visto, nella lontana giovinezza, un sottobosco dipinto a pennellate curviformi da Van Gogh, e composto soltanto d’erbe e di foglie e di tronchi d’albero, sui quali l’edera si arrampicava folta e serpentina.

Era un frammento di natura, e pur comprendeva un vasto mondo poetico: la scoperta di una «vegetazione» intensamente pittorica. Bastava quel frammento, per capire l’impeto creatore della fantasia di un uomo, che aveva saputo trasformare anche i funerei cipressi in moto di verdi onde irrompenti verso un cielo stravolto da turbini azzurro cupi, rotti da improvvisi e frenetici lampi gialli.

Stefani è la pace, la serenità: la veneta calma, la pace agreste, dai limpidi toni, raffinati, penetranti; è fedele a una visione in cui molte esperienze si sommano, si concretano al di là del tempo, in tonalità che non turbano, che sembrano anzi racchiudere e rappresentare lo spirito di un paese morbido, senza asprezze, modulato sul corso delle stagioni, aperto alla fantasia contemplativa di chi ha scelto un certo tipo divisione, in cui si riconosce la sintesi di un processo evolutivo, compiuto dalle origini impressioniste, fino alle conseguenze «fauves» ed espressioniste. È il percorso seguito idealmente da molti artisti della «generazione di mezzo», e che si giustifica appunto nella esperienza attiva di un artista, che ha saputo operare in un clima culturale ben delimitato e che continua a vedere dentro di sé, in un rapporto costante col paese delle proprie prime scoperte visive. Dai particolari minimi di un sottobosco, perduto fra le colline, Stefani risale a una propria verità, alle certezze, che gli danno la possibilità di vedere «oltre», nello spazio arcano dei sentimenti, mai tradito o negato, per seguire altre vie, lontane, appunto, dalla verità del suoi «sogni» di pittore e di poeta.

marzo 1972