Il Montello di Stefani
La pittura di Stefani continua una tradizione che è il sangue, l’anima, lo spirito stesso dell’arte veneziana. Uno spirito basato sul sentimento del colore, come sostanza magmatica del mondo, sulla linea di Bepi Santomaso (maestro di Stefani all’Accademia di Belle Arti di Venezia): una linea capace di coniugare la tradizione con le ricerche delle avanguardie. […]
Argan, forse anche stimolato dagli studi di Stefani sul Canova, guardò con favore anche all’attività pittorica dell’artista trevigiano. Capì perfettamente, ad esempio, che Stefani, oltre agli artisti veneti, guardava alle opere di Bonnard, Vuillard, Villon e Klee, i quali, pur muovendosi ai margini delle grandi correnti, non ricusavano le novità, purché non fossero, come spesso furono, in perdita. Anche Zanzotto ha studiato con estremo interesse le opere di Stefani, legate alle colline montelliane, con una connotazione simile a quella di Morlotti. Stefani infatti è riuscito a trasfigurare la natura come se fosse una forma astratta: pertanto le amate colline del Montello alludono ai seni e al corpo di una donna, e le stesse forme delle case, degli alberi, dei campi arati, sono articolate e composte come forme non immediatamente riconoscibili in quanto assumono una configurazione quasi astratta. Un’operazione, questa, che si allontana da quella di De Staël e anche da quella dello stesso Santomaso: un pittore “sostanzialmente” astratto.
Pensiamo alle sue celebri Lettere al Palladio, in cui il tessuto compositivo rivela chiare allusioni ai particolari architettonici palladiani, e, quindi, dentro l’astrazione, c’è la nostalgia della figurazione. Nell’opera di Stefani avviene il contrario: dentro la figurazione c’è la struttura dell’astrazione.
In ogni caso Stefani è lontano dalla geometria meccanica delle forme costruttivistiche in quanto insegue le forme di un albero, di una casa, di una Venere distesa ai piedi del Montello, secondo precisi referenti naturalistici che potrebbero sembrare astratti e, invece, sono profondamente organici, come una canna di bambù ricurvata che può sembrare un arco. Questo astrattismo di natura è la componente più caratterizzante, più peculiare dell’opera di Stefani: una componente, del resto, che io stesso, nel 1990, nella presentazione in catalogo di una mostra del pittore a Cortina, ho messo in luce, sottolineando le qualità umane e poetiche della sua operazione pittorica. L’artista ha saputo vedere oltre la realtà contingente, “nello spazio arcano dei sentimenti” per avvicinarsi alla “verità dei suoi sogni di pittore e di poeta” (Marchiori). Stefani ha dovuto lottare contro corrente come Zoran Music, Mattioli, lavorando in solitudine, in provincia, senza essere un provinciale. Dedicandosi ai suoi studi sul Canova e sull’arte veneta, Stefani ha continuato a guardarsi attorno per sentire nelle terre montelliane, nei colli asolani, nel paesaggio possagnese, l’eco della cultura filosofica, letteraria e figurativa del Giorgione.
Sostanzialmente Stefani, come il burbero Neri Pozza, è un poeta e un pittore lirico che ha dentro di sé quasi sempre, un’anima femminile, cioè una delicatezza nel vedere la natura, che rinuncia al fare per il contemplare, rinuncia all’azione per la meditazione.
La dimensione femminile è quella protettiva dei valori della casa, della tradizione, della memoria.
Il volto e lo spirito di Stefani sono come quelli di chi si è fermato a meditare, di chi non ha voluto fare pittura d’azione come Guttuso e come Vedova. Anche Santomaso, del resto, è soprattutto un pittore della contemplazione: in lui, come in Stefani, prevale quella che Jung chiama Anima: la parte femminile che vive nell’inconscio di ogni essere umano e che possiamo riferire a una maggiore capacità intuitiva e distintiva rispetto alla parte maschile, cioè Animus. In Stefani si sente quasi sempre una tensione creativa capace di trasformare le apparenze reali in armoniosi arazzi, nuances di forme e colori che richiamano talune composizioni musicali di Debussy. I dipinti di Stefani sembrano non avere struttura, sono come forme nell’acqua, galleggiano e riescono ad amalgamare i colori senza che essi costruiscano una struttura. E una forma eminentemente lirica, è musica: i colori di Stefani sono una tessitura musicale e innescano una forma di sinestesia.
Stefani appartiene alla categoria di artisti, come Mattioli, che non cambiano la storia ma sentono il tempo. Sentire il tempo è importante quanto cambiare la storia.
Questa condizione, l’autenticità che io cerco di individuare nell’opera di Stefani, è testimoniata dalla fedeltà alla pittura: una fedeltà che è anche quella di sentire in un piccolo quadro come la Tempesta del Giorgione l’intero mondo dei sentimenti e delle emozioni. Bontempelli ha avvicinato l’operazione pittorica di Morandi a quella poetica del Petrarca. Apparentemente il grande bolognese dipinge sempre lo stesso quadro: in realtà egli riesce, sia pure con variazioni minime, a testimoniare il flusso inesorabile del tempo, tante variazioni della stessa idea del mondo. Petrarca fa lo stesso: scrive versi su un solo tema, l’amore per Laura. È una visione assoluta, ma è maniacale ed è nostalgicamente lirica e meditativa. Non è Dante che dipinge l’universo e racconta tutti i sentimenti possibili: l’amore, l’odio, la guerra, le tensioni, la storia, la filosofia: Petrarca si limita a parlare di sé e del suo amore per Laura. Ecco, in questo altro elemento di rigore e fedeltà, e di profonda radice veneta, Petrarca è l’altro riferimento spirituale, come lo fu per Morandi, per Stefani, il quale, apparentemente, dipinge lo stesso quadro, anche quando, inserita nel paesaggio, appare la figura femminile. Nelle sue Veneri del Montello (evidentemente ispirate alla Venere dormiente del Giorgione) il corpo della dea è come una collina.
Le varianti compositive sono sempre filtrate dalla coscienza. Questa condizione individualistica, assolutamente personale, è quella in cui si muove Stefani: dipinge lo stesso quadro con varianti che sono come le varianti della luce in Monet, o quella del tempo, per cui una giornata è calda e luminosa e un’altra è nebbiosa e fredda. Il pittore, in questo caso, è il termometro dei mutamenti della natura, dello spirito e dei sentimenti dell’uomo. Questo è il senso della pittura di Stefani, la sua profonda natura petrarchesca, questo è il suo collegamento con grandi maestri come Morandi o come Monet, o come Mattioli, a lui molto vicino. Possiamo dire che la inconfondibile sigla stilistica di Stefani è un filtro luminoso in cui le immagini sembrano viste come dietro il vetro di un acquario: questo è il suo modo di interpretare la natura che altrimenti, ma con lo stesso atteggiamento mentale, interpretavano Mattioli, Morlotti, Morandi; questo è il filone nel quale egli si pone con la perfetta consapevolezza che il pittore non deve cambiare la storia ma deve testimoniare il suo passaggio. La modernità non è fare la rivoluzione delle forme, ma sentire veramente il tempo e il proprio tempo interiore.
febbraio 2005