Marco Goldin

L’oro delle vigne nell’onda delle colline

Cosa sono queste colline che Stefani descrive da tanti anni, come una pianta che gli è cresciuta attorno, abbarbicata al centro della vita? Sono ancora l’immagine di qualcosa che si vede, o non sono piuttosto, ormai, il puro riflesso della memoria, della costruzione di un pensiero luminoso, che si è incarnato nella vicenda della storia e dell’emozione? Vedere ciò che si vede o vedere l’invisibile? E vedere non è forse anche già vedere l’invisibile, il non apparentemente rappresentabile, il lontano da noi?

Stefani si è fermato poco sui canoni del naturalismo, certo perché è stata per lui determinante la lezione di Cézanne, secondo i modi di una fedeltà che dura da quarant’anni e non accenna a venir meno. Pur avendo attraversato momenti anche diversi, se pensiamo alle esperienze sul finire degli anni Cinquanta e poi alla riduzione del paesaggio, più o meno a partire dal decennio successivo, a quella scala cromatica ogni volta nuova, espressa per sintesi assoluta del sentimento e della forma. Con il desiderio tanto chiaro di tenere regolata l’emozione, affinché non potesse mai darsi nulla senza il recupero di una misura anche interiore e il realismo della descrizione cadesse su un piano di superamento di quella stessa realtà.

Forte di questa dialettica interna, anche complessa nei suoi sviluppi, secondo intenti, più volte sottolineati dalla critica, di interdisciplinarietà, l’opera di Stefani ha avuto un procedere maestoso, come di un fiume le cui acque si siano venute mano a mano ingrossando, a delimitare i confini di un luogo effettivamente non delimitabile, proprio perché aperto a un immenso. È l’attimo in cui non si comprende più se ciò che stiamo vedendo sia frutto della visione o del pensiero costruttivo, se il dato della memoria superi quello della descrizione.

So di sfatare un mito all’interno della letteratura critica, così prestigiosa, su Stefani. Anzi, forse il punto che tutti hanno ritenuto di partenza, quello da cui dovrebbero discendere tutte le altre deduzioni. Ma sono sempre più convinto che solo dal rimettere in gioco le proprie apparenti certezze possa nascere la verità, possiamo giungere a quell’impatto forte con la forma pura, che riapre in modo improvviso e inaspettato quanto sembrava fino a poco prima non modificabile. Ho la sensazione che questo insistere sulla veneta riconoscibilità dei luoghi non porti da nessuna parte, e serva soltanto a fare della buona letteratura, che però non è utile a spiegare il movente di questo dipingere testardamente, per anni, sempre lo stesso spazio. Ho il senso di una cultura molto più vasta, diramata, mai inutile, che se parte dal dato della visione poi scende senza indugio nei territori della coscienza. Lo Stefani poeta, di qualità non inferiore al pittore, lo diceva bene già nel 1968, in una delle liriche sue più note, Viaggio al mio paese:

Oggi non cerco che il tuo silenzio
e ti ritrovo come luce che illumina le mie mani.
Non hanno memoria le cose che durano
e il passare del tempo misura l’ombra delle colline.
Forse da sempre l’uomo cerca le proprie radici
per coronare sulla terra una durevole stagione:
un puro fuoco può aprire un varco azzurro ai tuoi occhi
tra le nubi e la polvere i confini con la terra.
Ora la terra mi fiorisce tra le mani
e mi consola il volto della mia gente
che inventa, ingenuo pittore, la morte:
nel vuoto silenzioso lo splendore del ex-voto.

Il 1968 è uno dei primi anni della sua nuova maniera, periodo che si può far cominciare con quel Notturno montelliano, del 1966, che apre questo libro. Questi versi danno subito il senso di cosa sia per Stefani paesaggio, di cosa sia natura. E nulla fa pensare che quest’idea possa essere circoscritta ai luoghi, ai luoghi soltanto. Fossero pur quelli dell’infanzia, la collina tanto amata che resterà quale archetipo materno, come la forma vista una volta per sempre. La tante volte citata indicazione categoriale veneta, può essere uno schema critico di comodo, perché sono molte altre le spinte che conducono alla formazione del mondo di Stefani. Il cui desiderio di stringere il colore dentro una forma ha forse poco di veneto, così come certi debiti con la cultura informale, che quasi nessuna traccia ha lasciato in questa regione. Si alza molto di più il suo sguardo sulle cose, e si capisce come il suo vero punto di riferimento sia lo spazio dell’interiorità, luogo di memoria e conoscenza, di visione e previsione, di svolgimento del colore e sintesi.

Del resto, quell’affacciarsi alla finestra di cui tanto si è parlato commentando quest’opera, altro non è se non il guardarsi in uno specchio, e riconoscere nel paesaggio, nelle sue pieghe umanizzate, i tratti propri del territorio dell’anima. Le colline del Montello sono le colline dell’anima e la scoperta di quello spazio, la scoperta di quell’alba del mondo, altro non è se non la scoperta del tempo. Su questo, davvero, si fonda la pittura di Stefani, che è un raggiungere la profondità del tempo attraverso il colore che evoca confini. E in quello specchio c’è tutto di noi e la pittura si fa, ancor prima che dal conoscere, dal riconoscere. Perché ogni cosa vista esiste già, si tratta di portarla alla luce della visibilità, della riconoscibilità, di trarla fuori dalle secche delle convenzioni, di liberarla dalle sovrastrutture, dalle costruzioni. La pittura è dunque liberazione estrema, poetica volontà di semplificare il mondo, di renderlo intellegibile. Stefani lo ha compreso subito, ed è per questo che, morandianamente, ha inteso muoversi soltanto attorno a minime variazioni, perché la vera scoperta è quella forma pura, assoluta, da cui tutto discende. Dopo, è soltanto una modificazione dell’essere, un suo assestamento, cui la pittura aderisce con la conseguenza del colore.

Nello spazio è il tempo per Stefani, entro i limiti di un sonoro ricordo dei Four Quartets di Eliot. Nello spazio esiste l’infinito non solo dello spazio ma l’infinito del tempo. E il tempo non è solo fuori di noi ma anche dentro. Così, dipingere il paesaggio è dipingere l’interiorità, e la finestra non dà sull’esterno ma verso l’interno. Dipingere il paesaggio è dipingere l’eternità dell’interiorità, la struttura estrema che è in ognuno di noi. Quella struttura che è da sempre, non si modifica nei secoli ma ci fa uguali al primo uomo che ha camminato sulla terra.

Ecco, quando Stefani dipinge le colline del Montello dipinge l’eterno che è in ognuno di noi, la misura invariabile che è da sempre; quel senso spirituale, e quasi religioso, che gli fa cercare il silenzio, la luce della notte, gli spazi entro cui confondersi e sprofondare, nei quali vibra il lume di una rivelazione. E il tempo viene prima di tutto, perché solo dal tempo noi siamo, e dal tempo soltanto viene il senso dell’esistere, e con esso il senso dello scomparire, dell’essere di nuovo dentro il tempo; in modo forse più profondo, più vero, dispersi dentro una più vasta dispersione.

Così penso dipinga Stefani il Montello: come un allontanarsi dalla realtà della visione, un fare di quelle colline un’onda che tutto travolge, triturando con il colore ossa e alberi, case e persone. La morte ha memoria, ed è allora qui, allora adesso, che può importare il motivo del luogo, ma più ancora la forza delle radici. Quando quello specchio rimanda l’immagine di una completa cenere del mondo, e solo alla pittura è concesso il privilegio di riplasmare il mondo come fosse cosa nuova, come fosse la prima volta che un uomo gli dà forma. Solo in questo momento credo nella pittura di Stefani come un omaggio al proprio paese; quando tutto è nella dispersione, il tempo è l’indistinto della morte e c’è bisogno di un punto da cui ripartire.

È il senso dell’infanzia, il legame con la madre, con il padre. Il legame uterino, vischioso; così com’è vischiosa, terrosa, questa pittura. Che è pittura di una nascita, di un’altra nascita, di una nuova nascita. Lì, nel punto preciso dove comincia l’infanzia, dove la nascita prolungata cede il posto alla prima memoria, è il punto in cui comincia la vita. Lo scrive, Stefani, in alcuni versi che aprono questo libro:

Indivisa dal mio animo trepidante
la voce materna, sul limitare
dell’ombra azzurra tra le acacie.
Ansia d’una luce mai spenta
il suo volto non temeva la morte:
fiore incorrotto d’una stagione che continua
sulle verdi colline, oltre i confini
del male e del bene, il sale della vita…

E se la pittura ha questo movimento fortemente liberatorio, per Stefani è provenire da un immenso e andare verso un altro immenso. Venire dal buio, stare nella luce e andare verso un altro buio. Forse lo stesso, forse diverso, forse il buio di un altro tempo. Comunque, la pittura è questo transito nella luce tra una e altra notte, mescolare i colori perché dalla notte esca il fiotto del sole. E con i colori si mescola la terra («Ora la terra mi fiorisce tra le mani»), con la terra il silenzio, il giungere da inusitate profondità. La pittura è questa voce di salvezza, è la possibilità di nominare quanto non si può nominare, di vedere in faccia la luce come una infinita prosecuzione della nascita.

Ma è anche stupore, fascinazione, incanto, primo momento della conoscenza, quando ancora non si conosce se non per intuizione, per sovrapposizione di immagini, per baluginii segreti, per rapide estensioni della luce entro il territorio della notte.

È il senso dell’apparizione, che l’opera di Stefani porta impresso in modo forte. L’apparire come opposizione allo scomparire. Apparire come resistenza della vita contro la morte, come il perpetuarsi nel luogo della non identità. Perché la pittura, infine, è ricerca dell’identità, manifestazione dell’essere, sopravvivenza, commozione, nostalgia.

E il paesaggio per come qui appare è il vuoto di tutto, allontanarsi perfino dai luoghi, sopra i quali tanta letteratura si è costruita. La casa è il punto da cui si parte, ma poi è un deserto, una solitudine da riempire, un tempo da colmare. Per cui la natura lampeggia, e diventa segno, simbolo, traccia di un mistero, la natura è ogni cosa nello stesso momento, è tempo e spazio, è l’effetto del tempo e l’effetto dello spazio. È il pieno e il vuoto, l’andare e il ritornare. Per questo si fa solo per variazioni e non per modificazioni, per assestamenti e non per violente fratture. Questa natura sta sul ciglio del vuoto, e contemplandolo lo annulla. Immettendolo nel tessuto che non è solo fibra vegetale, ma è la voce dell’essere. Perché poche altre volte si è visto dipingere nel Veneto un paesaggio come complessità della visione e della conoscenza, avendo Stefani scansato i facili lagunarismi o venetismi che hanno creato una tradizione di altro genere. La sua idea della forma, il suo essere incardinato nei ritmi di una struttura, ne hanno segnato il procedere non soltanto come adeguamento della visione ma anche come resistenza al puro piacere del colore o dell’abbandono lirico.

Lo si vede già bene in un piccolo quadro dipinto in età di non ancora vent’anni, il Mattino a Volpago del 1945-47. Forte già di una sostanza quasi cézanniana, che sarà comunque più tipica della pittura del decennio successivo. Eppure, nella quasi inconsapevole attitudine della giovinezza, Stefani misura se stesso per la prima volta davanti allo spettacolo del mondo, aprendo quella famosa finestra-specchio che sarà d’ora in avanti la sua porta sulla realtà. Ma come questa realtà non si fermi alla descrizione del reale, è subito detto in questo quadro; dove è un incanto, uno stupore alluvionato, una circolarità della luce che tutto impasta nel suo splendore velato. Perché così si esprime questa pittura: non dall’improvvisazione ma dalla lenta assunzione del motivo. Così la bellezza, di cui tutta è trapunta, si manifesta per accadimenti lievi, appena percettibili, poiché è nel segreto della luce, nel segreto della materia che si forma la verità del racconto. Non è dunque inutile essersi affacciati per tutta una vita alla stessa finestra; quella finestra che è presto diventata l’oblò dell’anima. E la pittura ha reso conto, più che del paesaggio che di fuori compariva, dell’atto stesso dell’affacciarsi. È per questo che poco per volta, anche se i titoli sono lì a ricordarcelo, e da ultimissimi anche i nuovi paesaggi dedicati alle colline di Breganze, i luoghi della pittura non hanno più veramente contato, perché si apriva invece uno spazio nuovo, infinitamente più ampio di quanto si possa immaginare. Spazio che non ha riferimenti in natura, che non ha più bisogno di essere descritto ed è, invece, solamente alluso. Quel paesaggio dell’interiorità che per essere dipinto non può più contare solo sulle regole della pittura, e si manifesta per essenze, per stigmi della visione profonda.

Anziché procedere in orizzontale, nella veduta quasi grandangolare, la visione di Stefani si esprime nella profondità della conoscenza, nei territori ormai anche dell’inconscio. Memoria e sogno formano una sola realtà, ed è quella realtà che sostituisce il processo della visione ottica. Per cui, se il punto di partenza, lo stimolo forte, è ancora oggi, dopo alcuni decenni, il paesaggio del Montello, subito poi quello stimolo si inabissa, e risale altra pittura da quella legata all’abitudine del vedere. Dunque, è vedere nel segreto per cogliere l’essenza prima del mondo, e non a caso nel primo quadro di Stefani, ingenuo per come può esserlo il quadro di un ragazzo, è già contenuta tutta la sua storia, già contenuto il suo procedere. E, in modo chiarissimo, il rifiuto della narrazione, che, a partire dal 1966, si espliciterà in una adesione a modi quasi neo-informali, pur sempre sostanziati dall’amore rivolto a Cézanne. Sono anni felici, molto felici, per l’opera di Stefani, nei quali si manifestano eventi atmosferici continui: luci mattutine assopite, nebbie della sera invadente, folgori, estati canicolari e arse, l’oro delle vigne autunnali nell’onda delle colline, incanti della notte profusa. E sono come le stagioni dell’anima, quell’aver compreso come ogni cosa che è fuori è anche dentro, e il vedere la natura è il vedere la nascita dell’interiorità.

E questo sempre più avviene con il passare degli anni, sotto il segno di una pensosa maturità. Le luci, che tra gli anni Sessanta e Settanta erano state aspre, talvolta addirittura violente, quasi impastate con il clamore del sole più assordante, quel sole che risuona, si stemperano entro i modi di una più tenace solitudine serale. Gli azzurri, i blu, i violetti chiudono questa pittura tra le pareti di una stanza ideale, e da lì il paesaggio è ormai solo ricordo, vicinanza della memoria, libertà dello sguardo di vagare, di protendersi fino agli estremi limiti del conosciuto.

Stefani dà adesso prova di grande coraggio, perché la pittura, disancorata del tutto dal reale, vale per se stessa, e non più come riferimento ai luoghi. Se, oltre dieci anni fa, egli titolò una sua mostra, e una bella monografia, Stagioni del Montello, oggi non potrebbe intitolarle che “stagioni dell’anima”, facendo valere il motivo così forte della dispersione tra coscienza e conoscenza. Luogo di sempre e luogo di mai, vuoto di cose che non siano l’assoluto della luce e l’assoluto del colore, infine l’assoluto della vita. Quello spazio che è patrimonio dell’uomo senza volerlo, che dà il dolore acuto del sapersi perduti su strade che ci era sembrato di conoscere.

 

dicembre 2005